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Autismo, la battaglia delle onlus "Ripensare politiche e strutture"
MILANO. Fine anni Ottanta: il film "Rain Man" svela per la prima volta l'autismo al grande pubblico. Anno 2004, Milano, unità di Neuropsichiatria infantile della Asl, Tiziano e Michela Maestri, genitori di Nicolas, angioletto di due anni, accompagnano il figlio per una visita. I controlli pediatrici dimostrano che il bambino non è sordo, però continua a non girare la testa quando viene chiamato. La diagnosi è un pugno nello stomaco: autismo. «Buio totale, non ne sapevamo nulla» racconta il padre. «La testa mi rimbombava e le domande sempre più angoscianti si affacciavano: cosa succederà? Come vivrà? In quel drammatico momento continua mi è venuto in mente "Rain Man". Confesso: una piccola luce di speranza si è accesa». Ma Rain Man non è l'autismo. O meglio: non è la regola generale di vita di chi è affetto dalla malattia. «Ogni bambino è diverso. Cambiano la manifestazione e le stereotipie» spiega la madre. Alto funzionamento, basso funzionamento: la medicina usa termini asettici, freddi, per misurare il grado di disabilità. «Nicolas non parla, l'interazione con gli altri è faticosa e può arrivare, nei momenti di stress, a darsi delle sberle, anche se fortunatamente non raggiunge i livelli più gravi, conosciamo ragazzi che si feriscono e sono costantemente in pericolo» raccontano ancora i coniugi Spinelli. «Ci sforziamo di rendergli la vita il più normale possibile: va a scuola (orario ridotto e maestra di sostegno), da poco ha imparato ad andare in bici da solo, ha fatto anche la Comunione commuovendo l'intera parrocchia. Ma più crescerà, più il suo destino sarà segnato da isolamento e frustrazione». Alice alla nascita era normale. Ha giocato, riso, parlottato come i bambini della sua età fino ai due anni. Poi ha smesso di colpo: «Il pediatra mi ha spedita dallo psicologo, diceva che ero una madre apprensiva» ricorda la signora Cinzia Gay. «Tempo perso, l'ho capito subito. Ho girato per specialisti finché sono approdata al Ctr di via Vallarsa, si stava formando la prima équipe specializzata. Mia figlia è stata la paziente numero sette». Alice, che oggi ha 24 anni, ha ripreso a parlare all'asilo. Un recupero straordinario, anche secondo gli operatori: «Ma dietro le parole c'è un mondo diverso dal nostro che preclude l'integrazione. Lei non è in grado di stare da sola, non ha ancora imparato a comunicare come si sente, se ha un problema, anche grave, non lo dice. Non può neppure uscire da sola: se è assorta nei suoi pensieri rischia di attraversare la strada senza attenzione». Le famiglie sono sole. E il prezzo dell'assistenza continua, notte e giorno, si paga anche in salute. Alla signora Gay insegnante che non raggiungerà mai la pensione proprio perché ha abbandonato il posto per seguire la figlia è stato diagnosticato un diabete da stress: «Sono quasi fortunata, meglio della depressione che colpisce tanti genitori». E aggiunge: «Dall'autismo non si esce, ogni pochi mesi mia figlia è costretta a presentarsi davanti a una commissione dove fra l'altro manca lo specialista». Procedure spietate per ottenere poche centinaia di euro per pagare i centri dove passano il tempo i ragazzi una volta adulti: «È quasi elemosina e ti tolgono la dignità. Anche nei centri manca ancora una vera cultura: pranzo alle 11, cellulare vietato, attività poco costruttive». L'autismo ha un'incidenza elevata: uno a cento. Dati precisi non ci sono, ma le due associazioni di riferimento cittadine, Angsa Lombardia (angsalombardia.it) e Gruppo Asperger, la forma a più alto funzionamento (spazionautilus.org), stimano una presenza di 90 mila persone in Regione di cui più di mille solo nella città di Milano. Possibili soluzioni? «Oggi l'ente pubblico conosce il problema», riflette Anna Bovi, presidente Angsa Lombardia: «È arrivato il momento di mettere a punto un percorso completo che accompagni la persona autistica dalla prima infanzia alla vita adulta. Coordinato e continuativo. Altrimenti si rischia di compromettere ulteriormente il loro stato e di condannarli alle comunità-alloggio. Che sono veri ghetti».
di Marta Ghezzi