Vita quotidiana di un padre e del suo "gigante" autistico. Aspettando Insettopia

ROMA. “Spregiudicato e spudorato, un po’ come mio figlio Tommy”: Gianluca Nicoletti, giornalista e scrittore, definisce così il suo libro “Una notte ho sognato che parlavi”, edito da Mondadori e in libreria dal 19 febbraio. Un libro scritto di notte, “nel tempo rubato al tempo”, come ci racconta l’autore: il tempo che resta, a un padre che “non fugge” dal figlio autistico - e tanti padri fuggono - ma che sceglie di restargli accanto, sempre più vicino, fino a diventare “gemelli inseparabili”. Il libro racconta le giornate, i momenti, le difficoltà, i drammi grandi e piccoli, le tappe più importanti, gli aneddoti più significativi che scandiscono la vita di una famiglia che, da 15 anni, continuamente deve reinventarsi, riorganizzarsi, adeguare i propri ritmi e le proprie scelte ai bisogni di un figlio “speciale” e ai mutamenti che il suo sviluppo porta con sé. Racconta tutto questo con la lucidità del giornalista, la partecipazione del padre, la franchezza e l’ironia di Gianluca Nicoletti e la “spudoratezza” di suo figlio Tommy.

I segreti di un padre. Nelle notti passate a scrivere “in uno stato quasi di trance”, Nicoletti infatti svela segreti che “forse, se fossi stato più lucido, avrei tenuto per me”. Racconta le sfumature e i netti contrasti tra i propri sentimenti: da un lato l’amore sconfinato per il figlio e il desiderio di dedicare a lui buona parte del proprio tempo, dall’altro la stanchezza e l’insofferenza per questo stato di “badanza”, che a volte diventa vera e propria “prigionia”. Così, se “è veramente una sensazione unica sentirsi dare una carezza tra i capelli, magari mentre guidi, da un figliolo gigante con accenno di barba”, è anche vero che “da quando l’attenzione verso mio figlio ha iniziato ad assorbire la maggior parte del mio tempo disponibile, mi guardo allo specchio e mi vedo ogni giorno più vecchio. E’ uno stato d’animo, un rovello interiore che sale in superficie a segnalare il nostro irrimediabile disfacimento”.

La vita familiare. Anche l’intimità della vita familiare entra nel racconto, perché “un figlio autistico fa tracollare le armonie coniugali, prosciuga le passioni, incanutisce ogni vita di coppia”. E se c’è anche un altro figlio, le tensioni si acutizzano, perché “Tommy ce l’ha molto col fratello, che a sua volta vede in lui la ragione di una frattura sempre più profonda che minaccia di dividere in due la famiglia”. E pure la violenza entra nelle pagine del libro: quella violenza fisica con cui soltanto, in alcuni casi, Tommy riesce a comunicare il proprio disagio, la propria difficoltà di essere in mezzo agli altri. E’ forse proprio nei racconti delle sue crisi di aggressività che l’equilibrio tra drammatica consapevolezza e ironica lucidità si realizza più pienamente: grande è l’angoscia nell’immaginare una mamma che, con il figlio divenuto adolescente, non riesce più a star sola, visto che “Tommy ha aggredito fisicamente la madre un po’ di volte” e, d’altra parte, “molte madri di ragazzi come Tommy raccontano di botte vere che quotidianamente si prendono dai loro figli”. Al tempo stesso, però, reduce da un “combattimento” con il figlio, Nicoletti ammette: “E’ strano, sto provando un senso di fierezza, anche se qualche osso mi fa male”.

“Radar sull’umanità”. Quel senso di fierezza traspare, a volte debolmente, altre volte con maggior evidenza, in diverse pagine del libro. Nicoletti infatti, pur prendendo le distanze da quei genitori che pretendono che il proprio figlio autistico sia un “oracolo”, o possieda talenti e doti soprannaturali, tuttavia riconosce a Tommy la capacità di osservare il mondo con un’attenzione che deriva dalla mancanza di pregiudizi, di filtri, di mediazioni. Tommy è quindi “radar sull’umanità”, “rivelatore di realtà sommerse”, perché ha “una capacità di zoom sensoriali immediata”. La stessa difficoltà relazionale di Tommy diventa, in alcuni passaggi del libro, quasi una risorsa: “l’autistico è un perenne estraneo, imprigionato tra gente a lui sconosciuta, inconoscibile e dalla quale ha pochissime speranze di essere realmente capito, noi ci affanniamo a portarlo a una condizione che giudichiamo salutare, quando in realtà potrebbe essere che non abbia alcuna malattia”. E’ un dubbio forte, che Nicoletti esprime sul significato e il senso delle relazioni umane: un dubbio maturato ed elaborato a contatto con Tommy. “Ogni nostra angustia, la maggior parte delle volte, è influenzata da un’interferenza di comunicazione. Lui è nato libero, ma sembra che noi, quasi per invidia, facciamo di tutto per costringerlo a costruirsi gli stessi legami che costruiscono le nostre esistenze”.

“Come un galeotto in libertà vigilata”. Tommy, poi, va sorvegliato, perché può mettersi nei guai ogni momento: ha “mangiato non so quanti Ipad, rosicchiando il loro schermo nei momenti di rabbia”, racconta Nicoletti, così come può infilare in bocca qualsiasi cosa, o sporgersi dalla finestra, o attraversare col rosso, ignaro dei pericoli, o forse indifferente a questi. Così, per poter accudire Tommy e contemporaneamente lavorare, senza doverlo sorvegliare continuamente, Nicoletti ha realizzato un appartamento-studio, a pochi metri dalla propria casa, dotandolo di tutte le misure di sicurezza necessarie a garantire l’incolumità e la serenità del figlio: grandi cuscini per terra, inferriate alle finestre, aria condizionata perché i vetri devono sempre restare chiusi. E’ qui che Nicoletti spesso si rifugia il pomeriggio con Tommy, o la sera senza di lui, dopo averlo accompagnato a letto. Un luogo protetto, in cui la vita va avanti ma, al tempo stesso, si immobilizza: “Il mondo si evolve, sovrascrive, diversifica. Io mi sono chiuso in due stanze con Tommy a ripetere sempre lo stesso rito che lui impone”. Di nuovo, l’amore e il godimento di questa intimità si intrecciano con l’umana insofferenza per la propria condizione, ma anche per quella del figlio: “Non può essere questa la vita quotidiana di un adolescente bellissimo ed esuberante come lui! Chi non comunica deve essere messo sotto tortura vivendo come un galeotto in libertà vigilata?”

“Insettopia”, ovvero la città per i “ragazzi speciali”. E’ da questa domanda che prende spunto ciò che dà il senso e la ragion d’essere a questo libro: il progetto di “Insettopia”, come viene chiamato negli ultimi capitoli, cioè una città pensata e costruita per “chi non si trova a perfetto agio tra gli umani”. Un progetto che sembra utopia, ma che invece è saldamente radicato in pratici bisogni e ben avviato verso una concreta realizzazione. All’origine dell’idea c’è una duplice consapevolezza: primo, le nostre città non offrono nulla a questi “ragazzi speciali”, mancano strutture e servizi adeguati ai loro bisogni e alle loro capacità, mentre a ogni angolo si annidano pericoli e fonti di disagio. Secondo, “i nostri figli ci sopravvivranno, e non sono un carico lieve da amministrare. Tanto varrebbe allora – ed ecco l’idea di Nicoletti – costruire sin da oggi la loro città. [...] Penso che sarà compito dei padri costruire la città dei loro figli perché, se non lo faranno, quelli finiranno in un contenitore per la raccolta differenziata di umanità poco produttiva”. L’idea, condivisa e alimentata da un gruppo di amici e colleghi riuniti nell’associazione “Sguardi laterali”, sta iniziando a muovere i primi passi: un primo spazio “ideale” è stato individuato, all’interno del Bioparco di Roma, per realizzare una struttura che faccia da centro diurno, ma anche da modello, luogo di formazione ed elaborazione di buone prassi. “Il comune e il Bioparco sono entrambi favorevoli – riferisce Nicoletti – e ho quindi buone speranze che il progetto si realizzerà, se riusciremo a trovare gli sponsor e quindi le risorse economiche necessarie”.

Enea, Anchise, il semaforo rosso. L’immagine finale è forse l’unica che “rischia” di commuovere, in un libro che “vuole strappare sorrisi e non certo lacrime”, assicura Nicoletti. E’ una chiusura amara che rappresenta quello che accadrà, se non si realizzerà un progetto per questi ragazzi e per le loro famiglie. “Sopravvivremo comunque – scrive in conclusione Nicoletti – fino al giorno che sarà proprio Tommy a portarmi sulle spalle, come dovette fare Enea con il vecchio Anchise. Io mi attaccherò al suo capoccione bislacco e gli dirò per la miliardesima volta di fermarsi ai semafori e camminare sulle strisce.[...] Quando io non ci vedrò quasi più, forse passeremo col rosso”.

di Chiara Ludovisi

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