Persone con disabilita' nella pandemia. Bisogna ripensare al modello dei servizi

La presidente della Fondazione "Durante e Dopo di Noi" risponde all'appello del vescovo Camisasca per la ricostruzione. «Bisogna aiutare ed incentivare autonomia e capacità e offrire ad ogni ragazzo una "seconda casa", una coesione».

Due proposte della presidente della Fondazione Durante e Dopo di Noi di Reggio Emilia, in risposta all'appello del vescovo.

Dopo un mese di residenza forzata, le persone con disabilità (specie se intellettiva) sono disorientate. Smarrite perché sono sparite di punto in bianco tutte le relazioni e i punti di riferimento. Se nel primo periodo, dopo un istante di disorientamento si sono adeguate al ritmo casalingo, potendo contare sull'attenzione continua dei genitori, adesso stanno attraversando un momento di disorientamento che diventa via via sempre maggiore anche perché le loro famiglie sono molto provate dalla stanchezza fisica e psicologica. Stanchezza fisica perché per tener tranquilla una persona disorientata e ansiosa occorre tenerla impegnata continuamente. Immaginate cosa significa per le famiglie mono-genitoriali o quelle in cui solo un genitore è capace di occuparsi della persona con disabilità. Stanchezza psicologica infine perché a chi chiede in continuazione: "poi cosa facciamo?", "Andiamo in gita?", "Mi porti al ristorante?", "Voglio vedere gli amici", si può rispondere solo, "adesso non si può, poi faremo una bella festa, te lo prometto". Sapendo con certezza che questo non avverrà in tempi brevi e sperando che almeno gradualmente questa situazione venga alleviata perché non si è assolutamente in grado di reggere la situazione ancora per uno, due, tre mesi. Il 3 aprile è passato ed è passata anche Pasqua e poi? Nessuno lo sa. Dipende da come evolve la pandemia. Ma le persone con disabilità e le loro famiglie più di ogni altra cosa hanno bisogno di indicazioni non tanto sul quando, ma di sicuro sul "come" e sul "dopo". In questo mese molti operatori socio-sanitari, con vari modi resi possibili dalla tecnologia, hanno cercato di raggiungere le persone che frequentavano i centri e di tenere un contatto con le famiglie e delle famiglie tra di loro. Per coloro che hanno bisogno di un contatto reale e non virtuale da alcuni giorni gli operatori, con guanti e mascherina, su richiesta delle famiglie possono andare a casa per una o due ore fino a due volte a settimana. Con previsioni a medio e lungo termine, e con il livello di ansia e disorientamento che stiamo vivendo, queste modalità non sono più sufficienti. Alla luce dei contatti con le famiglie dei soci e con tante altre famiglie, mi permetto di fare due proposte: una per il breve, l'altra per il medio- lungo periodo.

LA PRIMA PROPOSTA.
Occorre strutturare adesso un accompagnamento "vero" a queste persone e a queste famiglie. Occorre esplicitare e condividere percorsi strutturati (singoli o a piccolo gruppo) con degli step individualizzati per quanto possibile e monitorarli. Perché gli effetti di questo periodo di isolamento e di smarrimento continueranno e devono essere comunque affrontati in modo professionale. Quando i contagi saranno sotto una certa soglia si potrà ipotizzare che la riapertura dei centri diurni? Riprenderanno i tirocini lavorativi? Riprenderanno i programmi del Dopo di Noi? E poi, vista la probabile impossibilità di andare in vacanza, si può ipotizzare che i centri resteranno aperti tutta l'estate e non effettueranno le chiusure programmate a luglio e agosto?

SECONDA PROPOSTA.
Quando la vita "normale" riprenderà il suo corso, magari in autunno perché non ripensare, tutti insieme, il modello dell'assistenza per le persone con disabilità seguite dai servizi?
A fine anni '70 siamo passati dall'istituzionalizzazione alla familizzazione. Con la chiusura dei vari istituti, le persone con disabilità sono state affidate alle famiglie. In maniera quasi inconscia nella maggior parte dei casi sono stati considerate non come persone da far crescere ma come eterni bambini, da accudire, amare, far star bene. Sono nati i centri diurni, gli extra time, il sap, i centri socio riabilitativi, quelli socio occupazionali, i gruppi collettivi, la normativa per i caregiver eccetera. È un modello costoso e lo sarà ancora di più perché non prepara futuri. Anche se è cambiata la normativa, ci sono fondi che si fa fatica ad utilizzare modalità organizzative ancora legate ad un modello di cura/sollievo che fanno fatica ad adattarsi a modelli di educativa territoriale finalizzati a favorire l'autonomia e l'auto determinazione delle persone ed il coinvolgimento attivo delle famiglie e delle comunità.
Bisogna ripensare i servizi almeno partendo dalle fasce più giovani. Lavorando sin dall'inizio su due filoni: aiutare ed incentivare autonomia e capacità e offrire ad ogni ragazzo una "seconda casa" (con il coinvolgimento, anche economico, delle famiglie e con il sostegno delle comunità).Faccio l'esempio della casa frequentata da 4/5 ragazzi che imparano sin da piccoli a crescere insieme, e che in caso di Coronavirus, malattia dei genitori o altro abbiano già dei punti di riferimento e delle alternative. Per far questo occorre il coinvolgimento di tutti, un accompagnamento alle famiglie il monitoraggio dei percorsi e un cambio dell'organizzazione dei servizi identificando obiettivi e funzioni. E forse così le persone con disabilità potranno divenire una risorsa e una occasione per costruire coesione e nuovi modi di vivere le comunità.

di Innocenza Gillone

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