Lo "scandalo" del non profit di Mattia Schieppati

Alla presentazione del master in Fundraising dell'Università di Bologna il direttore Valerio Melandri mette a nudo gli aspetti ancora critici della «idea stessa di non profit»

«Se il direttore di un'organizzazione non profit che gestisce 50 milioni di euro ha uno stipendio di 148mila euro, è una cosa scandalosa?» Esordisce con una domanda scandalosa Valerio Melandri, direttore del Master in Fundraising e docente di Fundrising all'Università di Bologna, mettendo subito del pepe al convegno di apertura della undicesima edizione del Master in Fundraising dell'Università di Bologna che si è tenuto oggi nella sede universitaria di Forlì.

Un intervento che, in linea con il titolo provocatorio del convegno ("Tutta la verità sul non profit. Come farlo bene, perché si continua a farlo male"), mette a nudo tutti quelli che sono i limiti - culturali, mentali, di linguaggio - che ancora imbrigliano il non profit in un ambito chiuso e troppo spesso autoreferenziale. Non è un fatto - solo - di soldi, di risorse, ma secondo Melandri è ancora un fatto di mentalità. Mentalità che si avvita intorno ad alcune verità acquisite, «ma assolutamente false, o quanto meno infondate», sottolinea.

Le false verità, così come le provocazioni di Melandri, accompagnate da dati, numeri e citazioni puntuali, sono numerose. «Nel mondo del non profit si è affermata ormai la regola per cui se guadagni poco sei bravo, se guadagni tanto sei uno sfruttatore. Verità o falsa verità? Nel non profit è vietato rischiare, perché è vietato sbagliare. Non vale la regola del ventur capitalist profit, che rischia investendo su 10 start up, 8 falliscono ma le due che riescono gli danno una resa talmente alta che giustifica l'investimento complessivo. Questo nel non profit è inaccettabile. Perché? Ancora: il fundraising deve essere mirato a cause immediate, e allora organizzo la cena di charity per sostenere la scuola in Africa. Come faccio allora a pensare di fare una grande campagna di promozione culturale per esempio nel campo dei lasciti testamentari, che come è evidente darà frutti tra un discreto numero di anni? È un ambito di fundrising potenzialmente enorme per il non profit, però non dà un ritorno immediato. Si preferisce andare in piazza e vendere le piantine benefiche, che mi danno un ritorno subito. Peccato che il 60 % del ricavato vada nelle tasce del giardiniere...».

Il concetto chiave su cui spinge Melandri? La cosiddetta "struttura" di una non profit, e quindi anche chi si occupa di fundrising, non è - per usare parole sue - «il diavolo», ma è fondamentale e indispensabile alla buona riuscita della mission dell'organizzazione. «Domanda che nelle onp ci si fa spesso: che percentuale della mia raccolta da fundraising viene assorbita dalla struttura, e quanta va a sostenere la causa? Errore. Perché le spese generali sono parte della causa. Se si ragiona secondo la logica: questo va al progetto, questo va alla struttura significa che le non profit accettano progressivamente di rinunciare a ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere, centraliniste brave e efficaci, un bravo direttore generale, un'attività di formazione per il proprio personale. Tanto quanto hanno bisogno di bravi medici in prima linea, o di operatori in strada. Questa cosa purtroppo non passa. Da una ricerca fatta dal Centro Studi Philanthropy solo il 6% degli italiani, quando viene sollecitato a una donazione, chiede "la mia donazione che risultato produrrà"? il 78% chiede "quanto della mia donazione andrà al progetto"? È una visione distorta dei meccanismi di funzionamento di una onp, che deriva da anni e anni di informazione distorta sul non profit».

A "globalizzare" le riflessioni di Melandri ci pensa Sarah Holloway, docente di Social Enterprise alla Columbia University, intervenuta al convegno. Anche la Holloway parte da un'analisi in negativo, per arrivare a mostrare quanto e come per una non profit gli investimenti sulla struttura e sui processi non sia uno spreco di denaro, rispettto alla destinazione ai progetti, ma si traduce nel medio lungo periodo in un ritorno in termini di efficacia ed efficienza. «Negli Usa ci sono 1,6 milioni di non profit, una frammentazione eccessiva, dimostrata dal fatto che tante di queste sono inefficaci in quanto a risultati ottenuti. Ma nessuno, paradossalmente, se ne preoccupa». I motivi? «Non posso, per perseguire l'obiettivo onorevole di contenere i costi, essere il direttore generale di una onp, e fare anche da responsabile finanziario, da responsabile operativo, da responsabile della comunicazione e del fundraising. Nelle non profit ci deve essere una struttura, fatta di professionalità e competenze, con skills alti, perché altrimenti la mia non profit è destinata alla marginalità».

E, secondo Halloway, sono gli stessi donatori, singoli o imprese, che devono imparare a essere più esigenti da questo punto di vista, non donare solo perché una non profit ha un bel progetto, ma donare solo se dimostra di avere tutti gli strumenti per gli consentano di compiere la sua mission. «Bisogna contrastare l'opinione per cui anche se le non profit, pur impegnandosi onestamente, non fanno un buon lavoro, perché "del resto che cosa ci si può fare, è charity...". Bisogna far scomparire questo concetto: la non profit ha il dovere di fare bene, di farlo professionalmente, non deve pensare di poter essere comunque accettata, perché "tanto è una non profit". È una mentalità perdente in partenza».

Una chiamata all'investimento in professionalità e competenze rivolta alla platea di studenti chiamati, attraverso il Master, a «pensarsi come professionisti, non come gente che vuole darsi da fare nel non profit», sollecita Melandri.
 

 

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