"Il mistero del London Eye": storia di un ragazzo autistico, detective per caso

 ROMA. Ted Spark non sente un gran bisogno di diventare “normale”, però ha capito che esiste una cosa che – agli occhi della gente – lo avvicina a quella condizione: dire bugie. Così, dopo 12 anni vissuti senza mai mentire, si trova a dirne tre in due soli giorni. Ma non lo fa per cercare la normalità, bensì per salvare l’indagine parallela condotta insieme a sua sorella Kat per trovare il cugino Salim, letteralmente svanito facendo un giro sulla gigantesca ruota panoramica di Londra. Un giallo che, proprio grazie a Ted, si risolve dopo una narrazione avvincente e degna della fantasia di Agatha Christie. E’ un vero gioiello “Il mistero del London Eye”, di Siobhan Dowd (Uovonero edizioni), la storia di un ragazzo inglese “nel cui cervello gira un sistema operativo diverso da quello delle altre persone”. Ted, voce narrante del libro, è affetto da sindrome di Asperger, una forma di autismo che, come sottolinea Simonetta Agnello Hornby nella prefazione, non viene mai nominata “come è giusto che sia. Perché siamo tutti nello spectrum autistico – chi più chi meno”.

“Il mistero del London Eye” ha vinto il premio Andersen 2012, il maggior riconoscimento italiano assegnato alle più belle letture per i ragazzi dalla redazione della rivista Andersen e dai fondatori della storica Libreria dei ragazzi di Milano. Ed è stato candidato al Super Premio Andersen.

La famiglia di Ted appartiene alla middle class londinese, la sua vita è tranquilla e ordinata. Lui vorrebbe diventare un metereologo e inquadra con precisione tutte le situazioni quotidiane nelle caratteristiche del tempo; una delle sue passioni sono le previsioni per i naviganti (che ascolta di notte alla radio), ha una straordinaria capacità nel memorizzare le cose, è ripetitivo, non si toglie mai la divisa della scuola, non ama essere toccato, emette uno strano grugnito quando è in imbarazzo o non sa rispondere. Ed ha altre caratteristiche: non ride mai se non per far piacere al suo interlocutore (glielo ha consigliato il suo insegnante); non capisce il linguaggio astratto, tranne le espressioni che gli sono già state spiegate; e non sa leggere il linguaggio del corpo.

Un giorno Salim sale in una capsula del London Eye. Lui e Kat lo aspettano alla fine del giro di 30 minuti, ma da quella capsula escono tutti tranne Salim. Una sparizione angosciante per la mamma del ragazzo e per la famiglia di Ted. Un vero buco nero da cui si uscirà solo grazie alla logica e alla freddezza naturale di Ted, che instrada la polizia e che insieme alla sorella, scartando via via diverse “teorie”, farà trovare la strada da seguire. Faticando molto, ovviamente, a farsi ascoltare e prendere sul serio dai “normali”, che lo amano molto ma non si aspettano da lui niente che li possa aiutare o addirittura arricchire.

C’è una frase che il ragazzo si ripete continuamente durante l’indagine: “dipende da che parte guardi le cose”. Il London Eye gira in senso antiorario se visto dal lato dell’ingresso, ma gira in senso orario se sei dall’altra parte del Tamigi. Sembra questo il messaggio chiave che l’autrice vuole offrire ai lettori (che siano ragazzi o adulti, il libro è una rarità adatta a tutti): dipende da che parte guardi la normalità, e da quanto ti fai influenzare da elementi non essenziali.

Siobhan Dowd ha collaborato per venti anni con il Pen Club International, un’organizzazione che si batte contro la censura e per la difesa degli scrittori minacciati e incarcerati nel mondo. In Inghilterra ha condotto diversi programmi per inviare scrittori nelle scuole svantaggiate e nelle prigioni. Prima di morire nel 2007, a soli 47 anni, ha scritto quattro romanzi che la fanno paragonare ai più grandi scrittori irlandesi contemporanei. Tutti i diritti delle sue opere sono destinati alla Siobhan Dowd Trust, una fondazione creata poco prima della sua morte per migliorare le possibilità di accesso alla lettura da parte di ragazzi che vivono in aree socialmente disagiate.

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